The Mongol Art of War

Ultimo aggiornamento: 25 maggio 2021

May T.

The Mongol Art of War

Chinggis Khan and the Mongol Military System

Pen and Sword Books, Barnsley 2007

Scheda a cura di: May T.

pp. 216


Con il lavoro di Timothy May si compie un’ulteriore importante passo nella direzione di una comprensione più articolata e problematica del fenomeno dell’espansione mongola fra XIII e XIV secolo, con un indagine sulle ragioni di fondo che permisero la formazione di uno degli imperi più vasti della storia dell’uomo. Di frequente, sia nella manualistica sia nella saggistica, si sono riscontrati accenni alla superiorità militare mongola come uno dei fattori decisivi per spiegare una serie di successi sorprendenti raccolti dagli esordi del Duecento ai primi decenni del secolo seguente, senza che però gli estremi di questa superiorità fossero definiti e discussi nel dettaglio. Il merito principale di questo volume, il cui taglio alto-divulgativo permette di ampliare il ventaglio dei potenziali lettori, risiede appunto nella volontà di marcare i tratti specifici dell’organizzazione sociale e quindi militare dei cavalieri provenienti dalle steppe, isolando ed esponendo al lettore una serie di innovazioni organizzative introdotte dal fondatore dell’impero e sviluppate dai suoi successori a contatto con società di tipo stanziale e territori di nuova conformazione.  

Attraverso un primo capitolo di carattere propedeutico («The rise and expansion of the Mongol Empire, 1185-1265», pp. 5-26) l’autore definisce le linee essenziali della nascita e dell’espansione della potenza mongola, focalizzando ovviamente l’attenzione su Chinggis Khan, più noto in Occidente come Genghis Khan, l’artefice di un processo sociale, politico, economico e militare che portò in pochi anni da una situazione di estrema frammentazione tribale ad un livello di insuperabile compattezza e disciplina.
May ripercorre l’avventura biografica di Temüjin dall’infanzia, quando le divisioni e le lotte interne avevano permesso ai Tatari e alla dinastia Jin di avere la meglio sulle tribù mongole, fino alla consacrazione come unico Khan nel 1206, quando il conseguimento di una leadership incontrastata permise al condottiero di programmare un’espansione territoriale che rispondesse a strategie politiche e economiche. Questa nuova fase mise per la prima volta in contatto i nomadi mongoli con società sedentarie, imponendo di fatto la creazione di nuove strategie o il rinnovamento di un metodo di combattimento plurisecolare.
Il capitolo introduttivo prosegue seguendo il sogno di egemonia «mondiale» promosso da Genghis Khan e proseguito sotto i regni del figlio Ögödei, di Güyük e di Möngke, quando l’impero raggiunse il suo apogeo ma iniziò a manifestare i primi sintomi della successiva dissoluzione. A fronte di un’espansione straordinaria e relativamente rapida i mongoli seppero far evolvere la loro arte della guerra per offrire risposte adeguate ai caratteri sociali e territoriali dei singoli khanati, spesso assai differenti rispetto alle condizioni incontrate nel cuore del continente asiatico durante la prima fase di conquista; le armate di Khubilai, per esempio, il Grande Khan che controllava direttamente l’area orientale dell’immenso impero, pur registrando tra le loro fila un gran numero di arcieri e cavalieri, presentavano un corpo di fanteria molto più rilevante rispetto al passato e caratterizzato da una massiccia presenza di cinesi; al contempo nell’Ilkhanato, il regno mongolo formatosi alla metà del Duecento nell’area persiana, le armate si trovarono a dipendere in maniera sempre più evidente da una cavalleria pesante di tipo tradizionale, simile per composizione e strategie a quella degli oppositori storici, i mamelucchi.
Negli altri due grandi khanati asiatici invece, quello dell’Orda d’Oro nell’area stepposa a nord del Mar Caspio e del Mar Nero e quello di Chagatay nella Battriana, la cavalleria leggera mongola aveva mantenuto i caratteri originari, costituendo il nucleo centrale e fondamentale dell’armata, favorita in questo dall’ambiente circostante che ricordava le condizioni originarie della steppa mongola e dalla presenza di società dal carattere nomadico o semi-nomadico.

Dal secondo capitolo («The recruitment and organization of the Mongol Army», pp. 27-41) il volume entra nel merito analizzando la tipologia di reclutamento e l’organizzazione di base dell’esercito mongolo. Ad una rigida gerarchia sociale corrispondeva un’altrettanto solida organizzazione militare, resa ancora più indispensabile dalla necessità di affrontare campagne militari molto lunghe; in ragione di ciò il reclutamento non poteva interessare tutti gli uomini della società mongola, come a lungo si è creduto, perché una parte di questi insieme alle donne e agli anziani dovevano supportare le necessità di rifornimento ed equipaggiamento dei cavalieri. Il censimento della popolazione maschile destinata alle attività militari acquisì ovviamente una rilevanza assoluta, rappresentando allo stesso tempo un’efficace strumento di controllo per verificare il censo e valutare la tassazione conseguente; adottando inoltre questo sistema nei territori di recente conquista i mongoli procedettero alla riorganizzazione delle società cadute sotto il loro dominio secondo un modello più familiare.
L’autore insiste giustamente sull’organizzazione interna dell’esercito mongolo, impostata su una suddivisione dei cavalieri in gruppi di 10 (arban), 100 (jaghun), 1.000 (minqan) e 10.000 (tümen), che rispondevano al corrispondente comandante in una catena di comando chiaramente definita, allo stesso tempo molto stabile ma dotata di una intrinseca flessibilità; sin dai primi contatti tra gli occidentali e i mongoli questa specifica organizzazione interna, unita ad una mobilità portata agli estremi, colpirono gli osservatori, come ben testimoniano i resoconti di missionari come Giovanni di Pian di Carpine e Guglielmo di Rubruck e mercanti come Marco Polo. Pur essendo comune nel mondo asiatico la suddivisione in decine dell’oste, il sistema mongolo prevedeva che ogni singolo combattente si legasse in maniera indissolubile alla propria decina e di conseguenza alle unità superiori. A monte di questa suddivisione va segnalata la scelta di Chinggis Khan che mise un freno alle tradizionali divisioni tribali imponendo che tutti i nomadi della Mongolia fossero considerati come parte del Qamuq Monggol Ulus, ovvero dell’interezza della nazione mongola, una sorta di sovra-tribù che uniformava ogni precedente distinzione.
Il cuore dell’armata mongola era rappresentato dallo keshik, l’originaria unità destinata alla guardia personale di Genghis Khan, che divenne una delle più importanti istituzioni del mondo mongolo, passando da poche centinaia di uomini ai 12.000 previsti durante il regno di Khubilai. Questa sorta di corpo speciale, deputato in primo luogo alla protezione del Khan, rappresentava anche la più alta istituzione sociale dell’impero, nell’ambito della quale operavano i più importanti generali e si formavano governatori e amministratori; nonostante questa natura privilegiata anche i componenti del keshik, come ogni altro cavaliere mongolo, dovevano rispondere a regole ferree e sottomettersi a punizioni estremamente severe in caso di infrazione.
L’istituzione che contribuì più attivamente all’espansione dell’impero viene considerata dall’autore la tamma, un corpo speciale che prima della campagna svolgeva fondamentali operazioni di perlustrazione in avanscoperta e poi, attraverso l’acquisizione di basi stabili, costituiva la chiave per il mantenimento dei territori appena conquistati, consentendo al grosso dell’armata di proseguire in profondità la campagna. Pur rappresentando una parte fondamentale dell’esercito la tamma non venne mai considerata dai mongoli sullo stesso piano dei corpi principali di cavalleria, tanto che tra le sue file erano in genere schierati combattenti appartenenti ad altre etnie nomadi. Secondo il medesimo principio anche altri corpi specializzati dell’armata erano composti quasi esclusivamente da appartenenti alle popolazioni conquistate o vassalle, come i musulmani dell’Asia centrale e mediorientale, i persiani e gli armeni; una necessità sorta a seguito del contatto con le civiltà sedentarie, contro le quali non sempre era possibile ottenere uno scontro in campo aperto ma anzi era necessario approntare assedi anche lunghi che comportavano la conoscenza delle tecniche poliorcetiche. Questa capacità tutta mongola di assorbire con naturalezza nel corpo della propria armata le forze dei paesi conquistati sfruttandole al meglio secondo quelle che erano le loro potenzialità originarie, senza cioè imporre le modalità di combattimento tipiche della steppa, rappresentò senz’altro una delle chiavi di volta dei successi ottenuti.

Nel terzo capitolo («Training and equipping the Mongol warrior», pp. 42-57) si esaminano i caratteri dell’apprendistato e dell’equipaggiamento del cavaliere mongolo, preparato sin dalla tenera età ad un rapporto quasi simbiotico con il cavallo, all’uso dell’arco nelle condizioni più difficili e all’affinazione delle proprie capacità di resistenza. Le fonti non ci dicono molto relativamente alla formazione dei cavalieri mongoli, imponendo agli studiosi comparazioni con gruppi sociali di analoga provenienza come i mamelucchi egiziani e siriani o i Khitai che adottavano tattiche simili, piuttosto comuni presso i popoli della steppa. In parziale contrasto con la tesi di John Masson Smith Jr relativa alla sostanziale superiorità dell’organizzazione bellica mamelucca rispetto a quella mongola, l’autore sostiene che questo vale soprattutto per la battaglia corpo a corpo, in genere evitata dai cavalieri della steppa, mentre la capacità di applicarsi con estrema disciplina in numerose tattiche di combattimento a cavallo consentì spesso loro di prevalere.

La disamina prosegue nel quarto capitolo («The care of the army: logistics, supply and medical care», pp. 58-68) su un tema di grande rilievo quale quello relativo alla logistica, specie a fronte di campagne di ampio raggio che comportavano tempi e percorsi molto estesi. Le scorte venivano mantenute attraverso varie modalità: dal saccheggio alla riscossione di tributi, dallo sfruttamento delle aree di pascolo, fondamentali per un esercito accompagnato da mandrie immense di cavalli, fino all’utilizzo degli artigiani locali per conservare l’integrità dell’equipaggiamento. L’avanzata veniva poi continuamente supportata da uno straordinario sistema di comunicazioni veloci che, attraverso stazioni di posta disseminate lungo le principali arterie asiatiche e dotate sempre di cavalcature fresche, permetteva di mantenere contatti stabili con il cuore dell’impero.
Con il quinto capitolo («Espionage, tactics and strategy», pp. 69-85) ci addentriamo nei temi più sensibili relativi all’arte mongola della guerra, dove appare con chiarezza la portata di alcune delle innovazioni introdotte. In primo luogo i mongoli si dotarono precocemente di un vero e proprio sistema di intelligence dedicato espressamente all’acquisizione preliminare di informazioni sul nemico, sul terreno ideale di scontro e sulle opzioni possibili di approccio alla battaglia, composto da spie, ricognitori e anche mercanti che in cambio si vedevano garantiti percorsi sicuri per i loro commerci. Le notizie raccolte affluivano poi con estrema rapidità al centro di comando e alla corte permettendo scelte e reazioni rapide. Come molti altri popoli delle steppe, i mongoli utilizzavano la loro mobilità a cavallo e la loro abilità con l’arco per sfiancare i nemici prima dell’assalto definitivo con attacchi brevi provenienti da direzioni sempre differenti, applicando a una tattica tradizionale una tale disciplina e organizzazione da renderla micidiale soprattutto per avversari non abituati a scontri di questa natura. La strategia perseguita con maggiore frequenza dalle orde mongole, comunque, riguardò aspetti di carattere psicologico e si distinse per il suo taglio innovativo: allo scopo di favorire il più possibile la resa del nemico senza resistenza, in particolare quando si trattava di conquistare città e fortificazioni, i mongoli lasciavano fluire con abilità notizie sui massacri compiuti durante la loro avanzata inducendo le prossime vittime a rese incondizionate che favorivano la rapidità sorprendente di alcune campagne; spesso, quando penetravano nel territorio nemico, invece di puntare alla capitale o ai centri più importanti si dedicavano alla distruzione sistematica dei centri minori, provocando così flussi di profughi verso le aree urbane che testimoniavano del prossimo terribile avvento dell’orda e contribuivano a favorire la caduta o la resa dei centri più fortificati.

Nel sesto capitolo («Leadership», pp. 86-99) dopo aver definito le caratteristiche della linea di comando, si propongono le biografie di alcuni dei condottieri che concretamente furono gli artefici delle grandi conquiste mongole, da Jebe a Sübedei, il pianificatore dell’invasione europea, da Toquchar a Muqali e Chormaqan, artefice della conquista persiana. Nei capitoli finali si ricordano le caratteristiche principali degli avversari dei mongoli e le loro abitudini di combattimento, alcune delle quali vennero conservate anche durante la dominazione mongola («Opponents of the Mongols», pp. 100-14), vengono proposti alcuni esempi concreti di tattica militare («At war with the Mongols», pp. 115-37) ed infine si identificano alcuni dei lasciti del loro modo di combattere («Legacy of the Mongols», pp. 138-46), legati in particolare modo ai concetti di mobilità e rapidità che, coniugati con una disciplina ferrea, rappresentarono una delle svolte epocali nella storia dei confronti bellici. Allo stesso tempo si segnala quello che rimase il più vistoso limite di un meccanismo apparentemente perfetto: un sistema di combattimento ideale se applicato in determinate aree geografiche steppose o semidesertiche, finì con l’incepparsi inevitabilmente quando l’ambiente circostante mutò in virtù dell’eccezionale espansione dell’impero, con una drastica diminuzione dei pascoli a disposizione che rese disagevole la conduzione di mandrie numerose al seguito dell’armata. Si segnala la presenza di un utile glossario e di una corposa selezione bibliografica.

Luca Mantelli

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